Evviva la promo!!!!
Per donne inquiete, per uomini coraggiosi… Per tutti noi esseri meravigliosi, unici e poderosi.

La Vita, così come me la racconto
Quando sono quello che sono appare Dio dentro di me. (A. Jodorowsky)
Evviva la promo!!!!
Per donne inquiete, per uomini coraggiosi… Per tutti noi esseri meravigliosi, unici e poderosi.
Proteggimi dalle offese del tempo
Preserva il mio sguardo di bimba che entra nel bosco incantato
Proteggimi dalla paura di non farcela, dall’angoscia di certi momenti e della fine del mondo
Dimmi che tutto va bene
Difendimi dagli insulti e dagli inganni passati come un testimone attraverso le mie antenate
Proteggimi da tutta l’ansia, la frenesia e lo sforzo che ci metto per essere degna
Proteggimi dalla tristezza che mi assale quando tutto sembra ripetersi
Dalla rabbia davanti alla povertà e ad ogni spreco di umanità
Proteggi e custodisci le mie lacrime che come fiume sotterraneo non trovano sbocchi
Raccogli i miei cocci quando cado e mi spezzo e rimettili assieme
Proteggi tutta la mia stanchezza che vuole essere soltanto abbandono fiducioso
Difendimi da quello che penso di me stessa, dai miei pensieri piccoli, disordinati, ripetitivi, non pensati
Costruisci una fortezza attorno alla mia casa, benedici il mio nome di donna
Mettiti dietro di me quando cammino, davanti a me quando apro braccia e cuore, stai al mio fianco nelle serate di gala
Permettimelo, e io andrò in giro disarmata.
La gioia dell’essere io la conosco.
Prendo per mano una bambina che voleva solo ballare.
Andiamo in cerca di una voce che ci dica “non c’è niente di cui avere paura”.
Ne abbiamo fatta di strada assieme, affrontato pericoli, vissuto drammi, saltato nelle pozzanghere, cantato a squarciagola, pianto, riso tanto.
Eppure non ci sentiamo ancora paghe di vita, solo vorremmo sentirci un po’ al sicuro, da adesso in poi, vorremmo una casa a cui voler tornare serene, un solido conto in banca, un luogo (due braccia) dove abbassare la guardia.
Però la gioia dell’essere io la conosco: è un’altra bambina che prendo per mano, quella che esiste da quando tutto era intero.
Non ha bisogno di nulla, tanto meno di rassicurazioni. E’ lei la mia fonte di pace, è lei che fa sorridere il mio cuore. Mi dice: “vedi come è facile il piacere e dire ancora, ancora e ancora?” Sì, rispondo io, facile come rubare una coscia di pollo arrostito e scappare sul dondolo a mangiarla, come saltare i fossi con la bici, come affondare denti e labbra nei pomodori dell’orto appena raccolti, come i viaggi verso il mare.
E così, seria e contratta solo per abitudine, ma non più per convinzione, cammino tra desolazione e consolazione, trovando il mio modo.
Qualche volta accade l’imprevisto e ti trovi a gestire l’incertezza nell’incertezza e a contare su doti che non sai ancora se ce le hai o no. E sei tentato di mollare tutto o di rimanere almeno fermo per un po’.
Oppure a volte l’imprevisto sei tu che ad un certo punto non ti vai più a genio o non ti va più a genio il vaso sul mobile del soggiorno, o la pizza a domicilio della domenica sera, o la voce della persona che ti dorme accanto da vent’anni. E allora all’inizio sei terrorizzato e sei tentato di rimuovere i fastidi, e intanto riempi il vaso di fiori per vedere che effetto fa.
Magari sei semplicemente senza rete di sicurezza e ti trovi giusto sull’orlo del baratro, poco prima del salto, o sei semplicemente e forse per la prima volta solo, a dover fare i conti con la tua adultità, mentre vorresti che mamma e papà ci pensassero loro a te, ancora una volta.
Ma se senti, deep inside, che il momento è quello tuo che fai? Se senti che vuoi vedere come sarebbe se e vuoi vedere come si modifica la tua linea del futuro, se vuoi scoprire ancora qualcosa di te?
Ci vuole coraggio e ci vuole fede per fare il passo, e a volte il passo è decisamente più lungo della gamba. Sull’agire col cuore e sulla fiducia non mi ritengo particolarmente esperta. Mi sento più esperta nella resistenza e nella resilienza. E però ad un certo punto anche queste ottime e utili qualità in qualche modo limitano le tue direzioni, le strade percorribili. Il bello di conoscere le storie altrui, soprattutto le storie straordinarie, è quello di scoprire come siano sempre possibili risposte inedite alle sfide della vita.
E allora, senza paura di perderle, queste belle qualità che mi appartengono, in questo momento sento di volere seminare nuovi semi nel mio giardino. Il primo seme è quello della non autosufficienza. Lo sforzo individuale non basta più, anzi forse è controproducente. Si, certo, mi è servito, come mi è servito sentirmi sempre in grado di gestire tutto, di tenere tutto in piedi con una certa efficienza.
Ma sono stanca di tutto questo multitasking. E che fede posso avere se penso di bastare a me stessa? Allora, da un po’ di tempo a questa parte, mi piace e fare appello alla saggezza e all’amore del mio albero genealogico e alla sapienza delle mie guide astrali perché lavino i miei panni sporchi e mi aiutino nel lavoro alchemico. Mi piace prendere i miei problemi e trasformarli in divinità ed è così che posso chiedere per esempio a Marte la determinazione di una combattente, a Venere la capacità di sedurre, a Eros la vitalità e lo spirito creativo.
Chiedi e ti sarà dato, bussa e ti sarà aperto. Basta non chiedere a caso, né al primo che passa. Meglio avere interlocutori di primo livello. In pratica, occorre imparare a pregare e non avere dubbi che ogni decisione che prendi sia quella giusta. Citando Sibaldi, credere non è uno sforzo, è una percezione. Che sia questo il segreto?
Tra l’altro, ultimamente credo, appunto, che avere fiducia in se stessi sia un atteggiamento ampiamente sopravvalutato, così come l’autostima. Molto meglio avere fiducia e basta e darsi sempre la possibilità di ampi margini di miglioramento.
Con umorismo. Senza affanni. Infatti, secondo Hegel, ”…dobbiamo persuaderci che la natura del vero è quella di farsi largo quando è arrivato il suo tempo, e che solo allora appare, quando il tempo è venuto”. Citazione pertinente? Non so, in filosofia ho molte lacune, ma mi è arrivata da un amico proprio mentre scrivevo questo articolo e ho sentito che risuonava in qualche modo con esso. Un segno? Certo, un segno….
Credo proprio che mi basterà quel poco che farò per tenere la casa un minimo in ordine, un giro di aspirapolvere senza neanche passare dalle camere dei ragazzi, basta, che facciano loro i conti con il casino e la sporcizia che producono.
Mi prendo i miei tempi. Mi concedo tre giorni di vacanza approfittando della Pasqua. Sono stanca e ho bisogno di godimenti vari, vedere il mare, stare con gli amici, abbracciare, ballare, immaginare un viaggio, cenare al ristorante.
Adesso che le giornate si fanno tiepide, che la luce si fa nuova e convincente e che il giorno si dilata, manca giusto un po’ di chiasso, un po’ di vicinanza.
E alterno. Alterno momenti di gioia e di sconforto, momenti di fede e di disperazione. Momenti di coraggio e momenti di paura.
Eppure non mi sento nella mancanza e c’è un fondo di pace che accoglie tutto. Quando me ne accorgo, quando me ne ricordo. Com’è difficile il ricordo di sé!
Però la tentazione del vittimismo e della lamentela, la tentazione della pretesa, della richiesta del risarcimento…è inutile, ci casco continuamente.
Allora cerco.
Cerco lo spazio della fede. Lo trovo dove mi arrendo. Alle mie cattive abitudini, alla mia scontentezza, all’essere fatta così, all’essere al punto in cui sono, alle molte cose che non mi piacciono di me e della mia vita. Lo trovo dove continuo a desiderare. Lo trovo dove lascio che non sia io a controllare tutto, dove permetto alla vita di sorprendermi, dove accetto di non sapere tutto.
E guido piano. Rallento, come per rallentare il tempo che passa inesorabile con quell’angoscia di non riuscire ad ascoltare tutta la musica bella che c’è, di non poter leggere tutte le parole che vale la pena leggere, di non poter comunicare tutto, di non dare abbastanza sorrisi, quell’angoscia per tutta la vita che potevo vivere di più.
Guido piano e non so neanche dove andare, come nella canzone di Concato, e in questo non sapere c’è forse lo spazio per essere condotta dove la mia poca immaginazione non saprebbe dire. C’è qualcosa di tremendamente attraente e di enormemente rilassante, qualcosa di orgasmico, in questo lasciarsi accadere. Tanto bello da averne terrore. Rimanere aggrappati al proprio sé identitario è in fondo comunque meglio del buco nero in cui si potrebbe cadere.
Morire fa paura, rinascere ancora di più.
“….ma che mistero, dopo il ponte cambia il mondo, viene voglia di cantare.”
Ci sono giorni più difficili di altri. Giorni più stanchi, più cinici. Giorni in cui non ce la fai a raccogliere i pensieri, a spolverare una mensola o a sbucciare una mela. Giorni fatti per andare lenti, per fermarti a guardare le pieghe della tovaglia nella cesta dei panni da stirare. Giorni in cui ti trascini inerte, quando faresti meglio a stare sotto le coperte con coraggio. Sono quei giorni in cui torneresti a farti spazzolare i capelli da tua madre, in cui sai che se vivi è solo grazie alla carezza di un dio buono.
E poi ci sono giorni in cui ti alzi e tieni viva la fiamma, curi il fuoco fino a sera, sei ebbra di luce, corri fuori ad abbracciare gli alberi e gli sconosciuti, posi lo sguardo incantato e poetico anche sulla briciola di pane sul tavolo. Sono quei giorni in cui ogni incontro è una possibilità, ogni inciampo è uno slancio e il girovita che lievita non fa paura.
Ci sono giorni e giorni. Ma ogni giorno, in fondo, è buono per rilassare la mandibola e addolcire lo sguardo e arrendersi con umorismo al nonsenso.
…Mo’ me lo segno….
Una passa gran parte dell’esistenza a sentirsi in credito con la vita e a vantare pretese,
poi passa un’altra buona parte della vita a chiudere le sue ferite e a trovare il modo di riscrivere la sua storia,
poi una mattina di fine agosto, all’avvicinarsi del suo nuovo anno, si accorge che non potrà mai ringraziare abbastanza la vita per tutti i doni che ha ricevuto.
E le viene da ridere per tutte le volte che ha avuto paura e per tutte le volte che non si è fidata e sa che domani cadrà ancora in qualche baratro, ma sempre di meno.
E si accorge che il tempo è la misura delle trasformazioni e che può giocare con se stessa bambina, ragazza, e anziana , coi vivi e con i morti, in un tempo senza tempo.
E i vivi e i morti che l’accompagnano sono parte di questi doni, e si sente infinitamente grata per tutto il bene che c’è, anche per quello che ancora è incapace di vedere.
E sente l’impellente bisogno di ringraziare tutti coloro che illuminano i suoi giorni, nonostante sia spesso cieca e incapace di ricompensare adeguatamente tutti quanti:
la madre e il padre,
il fratello e la sorella,
i figli e i nipoti ,
e tutti i famigliari presenti e non più presenti,
le amiche e gli amici tutti,
ogni maestro, ogni mentore, ogni sostenitore,
gli amori mai iniziati, mai finiti e quelli ancora da venire.
Grazie
A casa sola,
mattino presto.
Temporale insistente,
cane agitato.
Mi godo il fresco in sottoveste.
In questo strano luglio,
di lavoro e di mare,
di assenze e presenze,
di nuovi entusiasmanti desideri,
di chiare visioni
su ciò che voglio,
mi sento circondata d’amore.
Ben ritrovata,
la coppia che mi ha generata
mi regge e mi guida,
fianco sinistro e fianco destro sorretti,
cammino a testa alta nel mondo.
Sono una donna fortunata.
E sì che ero partita molto bene: poesia, meditazione, ginnastica, lettura, scrittura, pulizie, riordini, smartworking, telefonate agli amici che non sentivo da tanto, bei film, pochi tg, ero riuscita persino a mettermi a dieta.
Poi sono cominciati dei giorni di morale a terra e di apatia. E allora vai di Rodiola che è tonica e antidepressiva. E quindi sì, mi sono detta, ce la posso fare.
Ma adesso?
Adesso che è iniziata la fase due mi ritrovo ad avere meno voglia di uscire in un mondo che stento a riconoscere e che non mi emoziona. Spazi, oggetti, superfici, vestiti e corpi da sanificare in continuazione, corpi che non possono vibrare della vicinanza, ma solo inaridirsi nel distanziamento. Respiri affannati dietro mascherine appiccicose.
Da due settimane non mi alleno e la dieta l’ho abbandonata ancor prima. Medito a giorni alterni e a fatica. La passeggiata col cane sta diventando sempre più corta e anche la meraviglia della primavera e dei suoi profumi è diventata una magra consolazione. Certo, la Natura è sempre un rifugio e una medicina, ma vorrei una civiltà da cui scappare. Lavoro con la frustrazione di dover rimandare ad un futuro non ben precisato la raccolta dei primi frutti, ma almeno qui c’è un po’ di presenza ancora. E con presenza scrivo, per non lasciare ai pensieri involuti l’ultima parola. Garantisco spesa, cucina, pulizie, lavatrici e tutti gli annessi e connessi in una routine nauseante e solitaria. Tutto procede…senza godimento.
Che mi succede? E’ forse un malessere sottile e strisciante che si sta facendo sentire? E quanto fastidio mi dà con tutti gli strumenti che possiedo per gestire la situazione?
E’ che il malessere se c’è ha un suo senso e occorre tenerselo finché non ha esaurito la sua funzione. Accoglierlo, non combatterlo. Darsi il tempo per conoscerlo e farlo diventare amico, dialogare con lui, interrogarlo.
Allora gli ho dato un nome e l’ho chiamato “se questa è vita”, il primo nome che mi è venuto in mente. E ho cominciato a chiamarlo e lui piano piano sì è aperto e si è rivelato per quello che è. C’è voluto qualche giorno e adesso che lo conosco un po’ meglio non sono sollevata, anzi. Perché lo stronzetto comincia a rispondermi in modo arrogante con sempre nuove e insinuanti domande e adesso vuol saper lui da me che vita voglio. Oh, ma sarai mica venuto qui per mettere in discussione le mie poche e preziose certezze? Che di questi tempi occorre stare aggrappati al salvagente pur se un po’ sgonfio. Ma lui sembra indifferente alle mie preoccupazioni e con lo spuntone sferra il colpo decisivo alla tenuta della ciambella. Ecco: che fare? Dimenarsi per stare a galla e tentare di raggiungere una riva qualsiasi o rilassarsi e farsi trasportare dalla corrente? Per una volta provo la seconda che ho detto.
E in questo galleggiare ho cominciato a comprendere un po’ dove si annida questo malessere. Sta nello spazio inaridito di ciò che mi manca.
Mi manca la pelle di un altro, l’abbraccio sudato alla fine di un ballo, l’essere abbastanza vicini da sentirsi il respiro, ascoltare musica dal vivo in locali affollati, sperare di trovare un posto a sedere sul treno dopo un giorno di lavoro, il rito del farsi bella per un’uscita serale, la possibilità di flirtare, progettare una vacanza, la folla di variegata umanità nelle vie dello shopping,non sapere cosa ordinare al ristorante perché vorrei provare tutto, l’opulenza dei bar di Milano all’ora del pranzo o dell’aperitivo, le strette di mano, il toccare eroticamente nei negozi tutti i libri e i vestiti che poi non comprerò e qualcos’altro che tengo per me.
Ritrovo allora un fondo di gioia perché nello sconforto delle piccole cose rimaste “se questa è vita” è arrivato a ricordarmi che la Vita è tale se ci sono anche le bollicine, che la Vita non può essere piccola e mi mette in guardia dall’accontentarmi. E come in un processo alchemico, tutto ciò che in questo momento ha colore di piombo si illumina della polvere dorata del desiderio. Evviva allora l’abbondanza dei desideri che muovono la storia, costruttori di ponti dal presente al futuro.
Così alla fine, per placare “se questa è vita”, costruisco un altare a Eros e prego che il serpente assopito nei luoghi indicibili del mio corpo si risvegli. Amen.